Nella vita puoi sentire la necessità di cambiare tutto anche quando, da fuori, tutto fila liscio.

Non so se l’hai notato anche tu, ma le copertine di Tom Waits non sono mai vistose.

Certe cover ti aggrediscono con furia mortale, altre sono un riparo per i cani sotto la pioggia, ma non sono mai immagini così accessibili.

Almeno non subito.

Niente di troppo appariscente, nulla di finto o stereotipato, nessun intento di commercializzare l’album. Tutt’altro.

Scorri le sue copertine e ti verrebbe da pensare che sono semplici fotografie dove lui compare quasi sempre, perché in fin dei conti è l’artista, immagini prive di altri significati.

Questo verrebbe da pensare, sbagliando in pieno.

Prendi la copertina di Swordfishtrombones, per esempio.

É una foto di Michael A. Russ in TinTone, una tecnica moderna a quei tempi per un artista che vuole fotografare i suoi soggetti in posizioni particolari e strane, proprio come Tom in maglietta bianca e bretelle.

La ricerca della foto in base alla posizione è avanguardia pura, Tom Waits ne intuisce l’innovazione e chiede a Russ di realizzare la copertina di Swordfishtrombones, il più innovativo dei suoi album.

Tom si mostra in una posa elegante, un glamour quasi canzonatorio se conosciamo un po’ il nostro uomo, ed è in compagnia di due attori hollywoodiani, due bizzarre creature ai due poli opposti, dove uno è il polo dei giganti e l’altro quello dei nani, i davvero-molto-bassi-di-statura.

Uno è Angelo Rossitto , che con i suoi 89 centimetri di statura è sicuramente in piedi, a fianco di Tom.

L’altro è Lee Kolima, armadio wrestler di quasi due metri e centotrenta chili, curiosamente il più basso dei tre nella foto perché seduto, seduto molto in basso, forse per terra, un po’ come Tom poco tempo prima di comporre Swordfishtrombones.

Anche Tom è seduto molto in basso nella sua carriera, e nella sua vita, alla fine degli anni ’70.

Le cose vanno bene, lui è ormai un cantante famoso e affermato, ma proprio per questo le cose vanno male.

È a terra perché intrappolato nel suo personaggio, con album meravigliosi all’attivo ma incapace di trovare la via d’uscita da quei locali notturni e pieni di fumo di sigaretta e alcol ad accompagnare le sue canzoni.

Vi ricordate Closing Time, vero?

Beh, continuate a ricordarlo, e anche gli altri, da The Heart Of The Saturday Night a Blue Valentine a Small Change.

Continuate a cantarli, a suonarli e a tenerli tutti a mente, ma dimenticatevi allo stesso tempo di quel Tom Waits.

Tutto ciò che è nato da Tom Waits dagli anni ’80 in poi, ogni successiva meraviglia mette le radici e trova linfa in Swordfishtrombones, uno degli album più influenti del novecento.

E a pensarlo, fa un po’ impressione.

Possiamo trovare infinite cose in fondo alle canzoni di un album non altisonante come altri, che ferma la sua corsa alle classifiche al 164° posto della Billboard 200 (che poi la reputazione di Waits è anche di non aver mai cercato di vendere un album, mai) ma autentica meraviglia e ancora territorio inesplorato.

Sono quindici brani. Quindici storie. Alcune starebbero benissimo anche in un disco di Captain Beefheart.

Asylum, etichetta di Waits, le rifiuta. Island le accoglie, per il suo primo album autoprodotto.

Quest’album è come un click. Uno scatto che accende l’interruttore di una casa enorme e segreta, con dentro tante cose che meritano di essere raccontate.

Da questo momento Tom racconta l’America sbagliata, la faccia deprimente e orribile di quando la reginetta USA si alza dal letto e non ha più il trucco a coprire i difetti, butta giù le porte delle stanze dove vivono i poveri, i falliti e chi non ha più niente da chiedere né da offrire, molte più persone rispetto ai ricchi padroni di casa nella patria in cui tutto sembra non solo possibile, ma anche a portata di mano.

E così, all’alba degli anni ’80, un Tom tristemente rinchiuso nella sua personale camicia di forza decide di andare a New York con un biglietto di sola andata.

La stessa città che nel 1985 gli regalerà Rain Dogs, secondo dei tre atti di vita con Swordfishtrombones e Frank’s Wild Years (1987)

L’idea era di non mettere più piede nell’area di Los Angeles, ma la vita a volte ti fa vedere l’alternativa solo allo scadere.

Ti mostra due carte e tu puoi sceglierne solo una. E t’impacchetta anche l’occasione, per Tom è una festa di capodanno 1979 a Hollywood.

Quando gli anni ’70 si preparano a salutare e gli anni ’80 sono già sulla soglia in attesa di entrare, il giorno prima di partire per New York, Tom Waits conosce Kathleen Brennan. Come dire che il suo posto è lì, in California, nonostante tutto.

É amore a prima vista, ma Tom vola a New York il giorno seguente come programmato e torna solo dopo una telefonata di Francis Ford Coppola che gli chiede di comporre la colonna sonora di One From The Heart. Sono passati quattro mesi.

Ritorna e ritrova Kathleen, che sta lavorando alla sceneggiatura dello stesso film, la donna che gli cambia la vita e la carriera, co-autrice di tantissime sue canzoni da Swordfishtrombones in poi, non sempre accreditata ma “incandescent presence on all songs we work on together”.

Colei che Tom, dolcemente, vorrebbe a suo fianco sempre, anche se andasse nei boschi, e “somebody who finishes your sentence for you”. La sua estensione, così in sintonia che gli potrebbe leggere nel pensiero.

Un nuovo decennio può cominciare quando sono già trascorsi tre anni dal suo vero inizio e gli anni ’80 di Tom Waits iniziano nel 1983, con Swordfishtrombones, l’album dove tutto cambia.

La rottura, la liberazione, la metamorfosi, l’asticella della complessità e profondità che si alza.

E allora Swordfishtrombones inizia con il ritmo blando e trascinante di Underground, così dannatamente waitsiana, la marcia solitaria di una persona che cammina a zig zag con una bottiglia in mano in una strada sperduta di periferia, vicino all’entrata di una metropolitana. O di una miniera. O di qualsiasi luogo dove persone invisibili e sconosciute lavorano di notte mentre la borghesia dorme, e dorme quando la borghesia se la spassa.

La voce dell’uomo canta di mondi sotterranei, la voce gratta e si trascina con la musica, mangiandosi un bel po’ di parole, ed è come un’altra lingua, come se provenisse da un altro pianeta.

E allora fai partire Shore Leave in sottofondo, mentre due persone passano davanti a una casa disabitata, di notte, e probabilmente sobbalzeranno, chiedendosi cosa cazzo stia succedendo.

Sono i rumori, capite?

Sono i rumori di questo brano, una gemma in cui Waits ricorda o immagina le strade di paesetti asiatici e utilizza una sedia con cui riprodurre un suono che nessuno strumento musicale a parer suo poteva generare con altrettanta efficacia.

In tutto l’album, quindici persone suonano un totale di quarantacinque strumenti musicali. Alcuni molto poco convenzionali.

Sono i suoni inseriti uno dopo l’altro in Swordfishtrombones, concepiti da una mente contorta e geniale e fatti uscire tutti insieme così bene e in modo da farti scoprire qualcosa di nuovo a ogni singolo ascolto. Ogni ascolto è come se fosse il primo.

E allora, se un giorno avrai in mente 16 Shells From A Thirty-Ought Six sbranerai la giornata, ascoltando il ruggito di Tom, e farai tutto al ritmo ossessivo di questo brano pazzesco.

E allora, In The Neighborhood diventa l’inno nazionale delle persone umili e di chi vive ai margini.

É sempre Michael Russ a dirigere il video dove Rossitto e Kolima, agli antipodi per rappresentare due persone opposte e allo stesso tempo simili, seguono la marcia mentre Waits racconta come se la passa un normale quartiere quando il resto dell’America è impegnato a raggiungere l’apice.

E anche qualcun altro ne ha fatto la propria versione (Peter Gabriel inizia a cantare a 01:45).

A partire da Swordfishtrombones, Tom Waits si alza dal pianoforte ed esce a farsi un giro in posti reali e immaginari dove non sai mai con certezza se quello che sta cantando è frutto della sua immaginazione o dell’esperienza. Un po’ l’una e un po’ l’altra.

E si fa sempre fatica anche solo a concepire l’idea di generare un pensiero così bello che si avvicini alla bellezza di quest’album.

Nessuno è preparato, né lo sarà mai.

Quale album della trilogia ti piace di più?