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Rain Dogs
Tom Waits – 1985

Copertina Originale: Anders Petersen

VALORE VINILE DA COLLEZIONE

TRACKLIST

Tra il Troubadour di Los Angeles e il Cafè Lehmitz di Amburgo ci sono 9.070 chilometri. Sulla carta. In realtà sono molti meno.

Nella nostra finta e sfavillante società del “nuovo a tutti i costi”, Rain Dogs di Tom Waits è un album vero e duro e vecchio di trentatré anni, con una copertina che ha solo diciassette anni in più ed è (se possibile) anche più vera.

La copertina di Rain Dogs, una delle tante pietre miliari di Waits, è una foto scattata dal fotografo Anders Petersen a due clienti del Cafe Lehmitz di Amburgo.

Il bar era al confine della zona a luci rosse e diventerà palcoscenico di un album fotografico elevato allo status di pietra miliare nel mondo della fotografia.

Un capolavoro per un capolavoro il reportage a questo bar, accogliente come lo sarebbe una tana per cani randagi.

La macchina fotografica di Petersen entrò in azione tra gli anni ’60 e i ’70, il periodo in cui Tom Waits cantava in fumosi e malinconici locali della sua California (Napoleone Pizza House e il Coffeehouse di San Diego, lo Schwab e il celebre Troubadour di Los Angeles) e Rain Dogs non era nemmeno un’idea.

Erano locali fumosi e malinconici che Tom conosceva bene e di cui assorbì le atmosfere notturne, come una seconda pelle, e da cui scrisse il suo meraviglioso e notturno album d’esordio.

Avesse vissuto ad Amburgo, il Lehmitz sarebbe stato uno dei bar dove avresti potuto trovare un Tom Waits curvo sul pianoforte.

Di sicuro avrebbe accettato di cantare al Lehmitz, un bar fumoso e malinconico, rifugio delle persone ai margini della società.

Più facile cantare per chi ha perso quasi tutto che per borghesia e la parte “normale” della società.

Più facile che loro capiscano.

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Knight of the Rose, Lilly e Scar, Cafè Lehmitz (1968-1970)

Le foto al Cafè Lehmitz

Ma alla fine degli anni 60 il Lehmitz era un locale invisibile tanto quanto le persone che lo frequentavano, almeno fino a quando Petersen pensò di farlo diventare un set fotografico.

Le leggende mettono sempre quel pepe in più a una storia di per sé già molto interessante, per cui si pensa che il giovane fotografo scoprì il Lehmitz perché aveva sete e fu il primo bar a portata di mano. Un vero caso insomma.

In realtà Petersen nel 1968 era ad Amburgo per un motivo preciso, e il Cafè Lehmitz gli fu consigliato.

Nella città tedesca voleva fotografare i suoi amici, conosciuti sei anni prima. Venne a sapere che, per un motivo o per l’altro, erano quasi tutti morti.

Trovò solo la sua amica Gertrude, con cui condivise lo sconvolgimento e il dispiacere per la notizia a suon di sessioni di birre.

Tra un round e l’altro, proprio al Cafè Lehmitz, la donna gli consigliò di ritornare la sera stessa all’una di notte se voleva fare un reportage di quel tipo.

E allora avrebbe visto.

E in effetti vide.

C’era molta vita da fotografare, lì dentro, la vita più dura, stentata e realistica di Amburgo, i ritratti che Petersen voleva raccogliere per il suo diario personale.

Petersen entrò all’una di notte, nell’ora di punta, e trovò il bar in un’esplosione di musica, balli, alcol, risa, voci e grida.

Non era sempre così. Spesso era un bar fumoso e malinconico.

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Uschi e altri due clienti del Cafè Lehmitz (1968-1970)

Ordinò e sedette in un angolino del bancone, discreto e impercettibile come ogni bravo fotografo impara a fare.

Chissà, magari stava guardando la cameriera chiedendosi se fosse single, o fu distratto dal suo modo di fare perché del resto “She’s a moving violation from her conk down to her shoes”, ad ogni modo dopo pochi minuti notò che la sua preziosa macchina fotografica aveva cambiato proprietario ed era nelle mani di due clienti del Lehmitz.

Due bizzarri clienti ubriachi e felici per quel giocattolo che sparava flash se lo guardavi negli occhi.

Era una novità, un diversivo fantastico, fantastico, e si mettevano in posa per quello che cinquant’anni dopo sarà chiamato selfie.

Petersen si unì a loro e chiese se potevano fargli una foto dato che il gioco era suo. Come no. Accontentato.

Quando i due gli restituirono la macchina Anders, d’istinto, iniziò a scattare.

Era rimasto affascinato dalla semplicità di quelle persone sconosciute, colpito dal loro modo di comunicare, dalla ribellione che leggeva nei loro occhi. Come libri aperti con chissà quante storie.

Diventò anche lui un cliente affezionato del Cafè Lehmitz, quello con la macchina fotografica sempre in mano.

Nel 1968 e nei due anni successivi (ogni volta che ritornava in città) Petersen scattò circa 350 foto solo lì dentro.

I Clienti

Per quelle persone, la cui vita era un falò che bruciava da tempo, essere spontanei davanti all’obiettivo era la cosa più normale del mondo.

Anders fotografò prostitute, come Uschi, giovane donna violentata da suo cugino quando aveva 14 anni, accusata dalla famiglia (a quei tempi era più facile che accusare un uomo) e scappata di casa.

Era gentile e deliziosa. Si guadagnava da vivere nell’unico modo che sapeva, un modo che qualcuno l’aveva forzata a conoscere. E che aveva accettato.

Fotografò la teenager Mona e la sua amica Roxy, di ritorno da uno striptease dove Roxy lavorava; fotografò lavoratori emarginati che lasciavano al Lehmitz una buona parte di tempo, salario e fegato, in parti diverse; fotografò Ramona, che una volta era Karl-Heinz; scattò foto a travestiti e omosessuali che si baciavano in mezzo al corridoio, senza pensieri.

I loro pensieri li aspettavano fuori da quel bar.

Fotografò drogati e persone con malattie mentali, che in quel locale trovavano pace e conforto o almeno la libertà di andare in giro nudi senza timore di giudizi.

Fotografò senzatetto vecchi e giovani, uomini e donne, alcuni abbastanza dentro la realtà da mettersi in posa, e altri che dormivano sopra i tavolini o per terra. E fu facile.

Trovò un uomo che maltrattava la sua donna e, dopo aver riflettuto, decise di scattare un paio di foto anche a loro, perché del Cafè Lehmitz andava mostrato non solo il lato tenero, romantico e docilmente pazzo, ma anche quello violento e pericoloso. E fu difficile.

C’era anche un piccola celebrità tra gli habitué del bar: Scar, un vecchio, minuto e mite mangiatore di spade. Un uomo che aveva combattuto e ne aveva viste di tutti i colori.

I personaggi più strani e bizzarri di Amburgo erano clienti fissi del Cafe Lehmitz.

Ottantotto di queste foto furono inserite nell’abum fotografico Cafe Lehmitz, pubblicato nel 1978. L’album oggi è un oggetto di culto.

Tra queste foto, c’è quella di Rose e Lilly, i due della cover di Rain Dogs.

Anche loro erano persone che avevano smarrito la via, anche loro erano Rain Dogs, i cani che si allontanano troppo da casa, vengono colti di sorpresa da un temporale e non riescono a tornare indietro perché la pioggia ha cancellato ogni odore.

L’uomo con gli occhi chiusi è Rose, detto anche Knight of the Rose per il suo tatuaggio e i suoi modi da gentiluomo.

Sembra un bambino impaurito appiccicato alla mamma.

Rose passava ogni giorno al Cafè Lehmitz soprattutto perché sapeva di trovarci Lilly, donna corteggiata da tutti, e lei questo lo sapeva.

Rose si stringe al petto di Lilly e lei ride perché lui è così buffo e melodrammatico nella sua ricerca di contatto e conforto.

Sembra indifeso, ma si sa che l’amore ti priva di tutte le difese, quindi forse lui stava tutt’altro che fingendo.

Lilly e Rose, tra i regular del Cafè Lehmitz, erano due persone che ancora riuscivano a rimanere saldamente sui binari della propria vita.

Non avevano situazioni estremamente complicate come tanti altri.

Dai ricordi di Petersen, Rose era sempre di gran lunga il più elegante del bar, ogni giorno sembrava di ritorno da un impegno istituzionale o un matrimonio; in realtà arrivava dal ristorante a dieci minuti dal Lehmitz, dove lavorava.

Si vestiva bene per far colpo su Lilly. Nella foto è almeno in parte nudo e c’è da chiedersi come mai, ma forse è più facile immaginare che descrivere.

L’uomo nella cover di Rain Dogs a prima vista può sembrare Tom Waits, e forse il cantautore americano scelse proprio questa foto tra le tante perché l’uomo poteva somigliare a lui.

Forse Tom voleva far credere che anche lui era uno di loro?

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Uschi con uomo, Cafè Lehmitz (1968-1970)

Tom Waits come un Rain Dog

Se pensi che Rain Dogs sia un album semplice, ruvido, realistico, senza effetti speciali, un po’ come il Cafè Lehmitz e i suoi clienti, allora hai visto giusto, è proprio così.

Tom Waits decise di comporlo da disagiato, come avrebbe fatto un cliente del Lehmitz.

Un inchino di rispetto alle persone sole e perse di questo mondo.

E decise di farlo nella città americana ha adottato più randagi: New York.

Nella Grande Mela, in autunno del 1984, la stagione più piovosa dell’anno, c’era un uomo chiuso nel seminterrato di un appartamento di Lower Manhattan a comporre il suo ottavo album.

Era Tom Waits, solo in questo posto tra la 14ma strada e Canal Street.

Il posto che ogni compositore vorrebbe per scrivere perché tranquillo e isolato, ma comunque scomodo, umido, lercio, inquietante come una cripta.

L’acqua entrava nel garage dai tubi per via del fiume Hudson a un solo isolato di distanza. Si allagava.

Acqua di fiume ingrossata dalla pioggia, la stessa pioggia che cade sulle persone che vagano senza meta, la pioggia che lava via ogni odore (anche il proprio) e fa perdere l’orientamento ai cani.

L’orientamento musicale di Rain Dogs è invece multiculturale, con stili e sperimentazioni diverse (prima vera svolta di stile nella carriera di Tom e picco di creatività che continuava dopo Swordfishtrombones) con l’unica costante che è la sua voce.

Quella voce.

Con la sua voce, che ti aspetti di sentir provenire dai tombini e le fessure dei muri nei quartieri più bui, degradati e malinconici (e fumosi) di una metropoli, l’Orco di Pomona parla a nome degli emarginati dalla società.

I diciannove brani sono raccontati mettendosi nei loro panni, dai più cantati come Singapore, Rain Dogs e Downtown Train alle più strane come Clap Hands e Cemetery Polka passando (perché no?) a quelle che fanno un po’ accapponare la pelle, come 9th & Hennepin.

É da ascoltare in un vicolo buio e possibilmente cieco di New York, in una notte di pioggia. Cosa te ne pare?

Inoltre, è un album non dipendente da sintetizzatori e drum machines, e a metà degli anni 80 non voleva dire solo nuotare controcorrente, ma cercare di battere anche un record di velocità.

Waits registrò una vastissima quantità di rumori direttamente dalle strade di New York. Ci sono più di venti strumenti diversi, compresi vari tipi di organo, una sfilza di chitarre, armonica, banjo, marimba, svariati fiati e percussioni.

Waits preferiva pensare, cercare e trovare un suono invece che riprodurlo con un bottone.

Moltissime persone suonarono con Tom Waits in Rain Dogs, compreso Keith Richards in cinque brani, Richards che non capì gran che della spiegazione del brano “Big Black Mariah” fornita da Waits, fino a quando non iniziò a muoversi “in un certo modo” e allora Keith disse “Oh, why didn’t you do that to begin with? Now I know what you’re talking about!”

Bastava poco per capirsi. Era il loro modo. Era un istinto animale.

“For I am a rain dog, too.”

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Roxy e Mona, Cafè Lehmitz (1968-1970)

Quale tra questi album di Tom Waits ti piace di più?