“We have to die. Hate to break it to you”
Senti la voce roca di Tom Waits dire questa frase nei primi secondi del Bone Machine Operator’s Manual, un documento vocale da lui registrato nel 1992.
La voce sembra reduce da una battaglia mentre lo dice, però lo dice, e allora capisci qual è il cuore profondo di Bone Machine.
Due parole: moriremo tutti.
E la sua nascita, il suo debutto non è mai stato così lontano.
Dopo ben cinque anni da Franks Wild Years arriva l’album più tetro, agghiacciante, per certi versi ineguagliabile di Tom Waits.
Un album che canta la morte con infinite gradazioni vocali, il roco falsetto, i ruggiti e i ringhi, i sussurri di gola. La voce qui è lo strumento musicale per eccellenza. Come Black Wings, uno degli apici, se può esistere un apice in un album come questo.
Bone Machine a una voce (due in That Feel), quattro mani e due menti, quelle di Tom e della moglie Kathleen Brennan, la donna che aveva prelevato Tom ai margini della sua stessa vita sul finire degli anni ’70, lo aveva portato al riparo e lo aveva messo sulla strada della maturità artistica.
Gli aveva dato nuova linfa per sperimentare, per diventare un artista diverso. Il vecchio Tom aveva composto Heartattack And Vine nel giugno 1980, il che rende Swordfishtrombones il primo, vero album dopo la fusione Waits-Brennan. Tirate voi le conclusioni.
Lei allora contribuì all’album solo con l’influenza mentale e psicologica sul marito, qui invece il suo contributo è concreto, e la sua firma è marchiata a fuoco in buona parte dei testi.
“We have to die. Hate to break it to you.”, dice Tom Waits nella registrazione-manifesto di Bone Machine. Poi ride sommessamente, ride della sua ironia tagliente e surreale, con un misto di rassegnazione e divertimento nella sua voce sfatta, bassa e perforante che potresti ascoltare per tutta la notte mentre ti parla ma che non diresti mai capace di raggiungere tutte le sfumature di quest’album.
Come se non potesse dire quello che sta dicendo senza modulare all’infinito la sua voce.
La copertina è opera di Jesse Dylan, figlio di un cantautore folk rock leggermente famoso, e mostra un primissimo piano di Tom Waits urlante con cappuccio, corna e occhiali protettivi, come nel video di I Don’t Want To Grow Up.
L’effetto sfocato di quest’immagine sembra il terrificante spostamento d’aria mentre Tom si scaglia a tutta velocità, con tutta l’intensità di cui è capace. Tom sta urlando come un aviatore kamikaze venuto da un altro mondo per compiere un atto distruttivo, per gridare a tutti di essere vivo.
É splendidamente e maledettamente bello essere vivi, è una sensazione che non finirà con l’atto distruttivo più antico, primordiale e misterioso che troncherà ogni vita: la morte.
Il mondo è una fabbrica di vita e morte a ciclo continuo e inarrestabile.
Il mondo raccontato in Bone Machine cade a pezzi e noi cadiamo nel solito tranello.
Quello per cui Tom Waits scava sempre più a fondo nei suoi album man mano che gli anni passano e un decennio lascia il posto a un’altra decade. Pensiamo di trovare lo stesso cantante di prima, ma lui scava sempre più a fondo. Per trovarlo, dobbiamo scavare anche noi.
Tom diventa più profondo, più intimo, più amico e più introspettivo. Più capace di capire, più bravo a spiegare.
Nel 1992 ha la sicurezza e lo spessore giusto per capire quanto sia facile lasciare questa vita.
E si parla allora di morte, il punto di arrivo comune a tutti, l’inevitabile destino di ogni essere umano, la macchina d’ossa, tessuti e muscoli che si muove, vive, domina e fa danni nel nostro oscuro e delizioso pianeta. Bone Machine è più difficile, più tetro, più cupo, più omicida, freddo, bollente, intimo e distante, più glaciale e più mortale di qualsiasi altra cosa scritta da Tom Waits fino a quel momento.
In Dirt In The Ground sembra di essere nel salottino di una Black Lodge in stile David Lynch. L’atmosfera a metà tra un sogno e un perfetto dormiveglia dove riflettere sulla facilità con cui una vita umana può essere distrutta.
Black Wings è un prodigiosa interpretazione di come sarebbe un film western firmato Tom Waits. Un brano vivido e spettrale che rimane nell’aria anche quando finisce con quell’incredibile sussurro che io pensavo dicesse “Ever had a medium” ma ovviamente quella voce pazzesca mormora “Ever having met him”.
Non sempre facile distinguere le parole, ma più che altro siamo distratti da tanto spettacolo.
Siamo umani.
Siamo macchine d’ossa e finiremo tutti allo stesso modo, sottoterra o distesi a piedi in avanti chissà dove, ci trasformeremo in tante piccole particelle che voleranno via o seguiranno il flusso dell’acqua, saremo un tutt’uno con la terra o fatti della stessa sostanza dell’aria.
Non è uno scherzo, è verità.
Non è solo difficile realizzarlo ma è complicato anche solo concepire l’idea di staccarsi questa vita. Così viva e piena di sensazioni che sembra impossibile doverla lasciare.
Già The Earth Died Screaming inizia all’insegna dello strumento che domina il disco.
Le percussioni.
Ma è un rumore d’ossa che sbattono quello che sentiamo, come se un inedito tamburo fatto di rotule, femori e scapole.
E qui c’è l’essenza della filosofia di Waits. Spogliare la musica di tutto il superfluo. In Bone Machine, spogliare la musica di tutta la carne.
Perché, Tom spiega, c’è un tempo per ogni canzone di nascere e vivere come un entità dotata di vita propria. “Vuoi che la melodia abbia certe sonorità negli strumenti che stai usando, nella stanza dove stai suonando. E quando certe cose si modellano nella forma che vuoi, le parole escono”
La stanza, in questo caso, è la Praire Sun Recording Studios di Cotati, California. Ma non una stanza a caso, bensì una piccola cameretta dello Studio C.
Un involucro in cemento dove gli echi rimbalzano all’impazzata dalle pareti al soffitto.
Una stanza dove può non succedere niente o dove può succedere di tutto.
Quattro mura che amplificano la voce di Tom Waits e le fanno raggiungere vette e insenature difficilmente raggiunte in altri album. La stanza sarà battezzata la “Waits Room”.
Con That Feel sembra che due amici stiano cantando, abbracciati e un po’ alticci, dentro un bar. Sono Tom Waits e Keith Richards, che aveva suonato anche su Rain Dogs e qui fa la sua entrata in scena, nella Waits Room, con una bottiglia in mano.
Waits e Richards si fanno trascinare dalla chitarra e lasciano che le parole escano da sole per cantare di quella sensazione che non puoi perdere mai.
Cantano con malinconia e leggerezza, come per esorcizzare un album sulla morte, quello stato di coscienza che ti resterà attaccato per tutta la vita, e anche dopo forse, qualunque esso sia.
Perché ce l’hai nel DNA, vedi, è una delle miliardi di informazioni di un DNA che ci dice che non può esistere un essere umano uguale a un altro essere umano. E allora ho idea che “that feel”, quella sensazione sia diversa da persona a persona.
La tua qual’è?
Nella storia di Tom Waits succedeva…

1987 – Franks Wild Years

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