“…la “Storia di un impiegato” l’abbiamo scritta, io, Bentivoglio, Piovani, in un anno e mezzo tormentatissimo e quando è uscita volevo bruciare il disco.
Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile, so di non essere riuscito a spiegarmi.” (Fabrizio De André)
Dunque, ricapitolando.
Un impiegato ricorda i giorni del Maggio Francese 1968. Lui non vi partecipò, nonostante l’energia dei suoi trent’anni (venticinque al tempo delle rivolte) gli avrebbero consentito di essere un vero attivista. Il ricordo, reale anche se fumoso, prende forma pian piano, come il fischio sommesso dei primi trenta secondi dell’Introduzione, ascoltando una canzone di quel periodo.
Cinque anni fa era uno studente, ora è un anonimo impiegato. La sua condizione non è cambiata così come non è cambiata la società in cui vive. Il ritmo frenetico del primo brano di Storia Di Un Impiegato sembra la consapevolezza dell’impiegato di rivedersi come un semplice ingranaggio della macchina capitalistica a cui tante persone avevano provato a ribellarsi, inutilmente. Lui è ingranaggio sicuro, disciplinato e oliato a dovere in trent’anni di vita. Una delle tante, insignificanti pedine di una scacchiera troppo grande.
Il neonato ricordo si fa strada, troppo giovane per spegnersi.
Canzone del Maggio
Aveva sentito della lotta, ma non con le proprie orecchie. Aveva percepito il calore di quel focolaio di manifestazioni spontanee contro il potere, un focolaio presto divampato in incendio, un incendio che il potere riuscì a spegnere. Non tutte le pecore si erano ribellate. Tante avevano paura, rimanevano nel recinto, sbattevano la porta in faccia, non avevano coraggio, e credevano alle notizie in televisione. Tante si erano rimesse in fila, pacifiche, composte.
Così immagina come avrebbero parlato le persone che davvero avevano vissuto la primavera ‘68, che parole avrebbero contro chi non c’era e aveva contribuito alla sconfitta. Impiegato compreso. Tutti dovevano stare dalla stessa parte della barricata per cambiare le cose. Per sfondare un branco di lupi, che non mollano un centimetro di potere, la mischia belante doveva essere solida e totale.
Canzone del Maggio è l’impiegato che simula un’accusa verso chi non c’era, oppure è l’impiegato che incolpa tutti, compreso se stesso, di essere lo stesso, per sempre, coinvolti.
Ci sarà un’altra rivolta in futuro, e nella Canzone del Maggio l’impiegato lo dice chiaramente.
“Verremo ancora alle vostre porte, e grideremo ancora più forte”
Un’onda più forte, inarrestabile.
La Bomba in Testa
Un’onda collettiva di cui lui non farà parte. La realtà in cui vive lo ha reso diverso dagli studenti del ’68, pur essendo poco più vecchio di loro.
L’impiegato è un uomo plasmato dal buonsenso. Pensa al proprio orticello e se ne frega, per volontà o abitudine, di tutto ciò che lo circonda. “Ma non importa adesso torno al lavoro”. Vive nel comodo letto di un lavoro sicuro e nell’illusione che basti dire “non vogliamoci del male” perché non ci sia violenza. É un conservatore, la sua esistenza è una facciata affrescata da cose inutili (“E io contavo i denti ai francobolli”).
Ma sente, con crescente forza, che la sua vita è una gabbia che non gli permette di cambiare una società che ogni giorno lo opprime. Ha trent’anni, tanta voglia di ribellarsi e una sana paura di farlo “…con la paura di non tornare al lavoro”. La sua ammirazione per gli attivisti del ’68, che rischiavano la vita per un uomo e finivano senza problemi in galera, non è sufficiente per sentirsi parte di loro. Non è parte di un gruppo perché mai ha vissuto la rivolta sulla sua pelle. Può solo immaginare la sensazione di liberarsi dalla maschera che sta indossando per seguire le proprie tentazioni. Vorrebbe ribellarsi, sia chiaro, ma capisce, o immagina, di essere solo e in ritardo per unire le forze.
Più il tempo passa più si sente meno “normale” e più estraneo alla società. La sua mente ritorna agli studenti del ’68, cerca di capirli, si misura con loro a distanza, ma capisce che punti in comune ce ne sono pochi. Il conflitto tra la voglia di ribellarsi e la convinzione, o la presunzione, che le condizioni del Maggio Francese non possano ripetersi, lo portano a decidere di compiere un gesto da solo.
Per ora l’idea di un gesto forte, sensazionale e (magari) risolutivo resta, appunto, solo un’idea o forse qualcosa come un sogno. Così, sicuro che la sceneggiatura andrà in scena solo nella sua testa, l’impiegato si mette a sognare Al Ballo Mascherato.
Per un momento, forse, sogna a occhi aperti.
Al Ballo Mascherato
Nel primo sogno, l’impiegato sogna di far esplodere una bomba durante un ballo in maschera. É ovviamente, almeno stavolta, una bomba metaforica.
Con il suo ordigno l’impiegato fa esplodere la sua rabbia, l’indignazione contro il potere, e crea un solco tra se stesso e tutto. Al Ballo Mascherato ci sono tutti i simboli del potere e tutti i simboli del potere saltano in aria: ideologici, culturali, politici, religiosi e persino familiari.
Il ballo è simbolo di ipocrisia e finta diplomazia per mantenere una situazione in equilibrio e per cementare un potere. Si balla, ci si accorda, si divide il malloppo e alla lunga chi paga le spese è la collettività, le pedine più piccole nella scacchiera sociale, schiacciate dal sistema, il popolo di cui l’impiegato fa parte. Se questo ballo, poi, è addirittura in maschera, salvati popolo! La maschera rende invisibile chi è già potente.
L’impiegato con la sua bomba fa saltare il castello di carte e smaschera le ipocrisie. Dante, Cristo e Maria (quindi la religione e con loro anche il Nobel per la pace, per Faber un riduttivo e ridicolo “premio per la bontà”, un premio che servirebbe solo a sottolineare i fallimenti della religione), gli Stati Uniti, e il loro controllo sulla politica e l’economia italiana del dopoguerra, Michelangelo (e la sua Pietà), l’ammiraglio Nelson e persino il padre e la madre.
Sogno Numero Due
L’impiegato esce da un sogno ed entra nel Sogno numero due, dove si ritrova davanti a un giudice dopo aver gettato la bomba.
In un flusso melodico jethrotulliano, il giudice gli dice che la sua sete di vendetta era solo la sua personale ricerca di potere. Ha ucciso il potere, è stato il suo boia, ed è diventato il potere. Nelle ultime parole il magistrato infatti mette l’imparzialità della giustizia nelle mani del potere (l’impiegato), chiedendogli se vuole essere assolto o condannato. Fabrizio De André ha spiegato che questo brano, come La Canzone del Padre subito dopo, nasce dall’esigenza del potere di rinnovarsi. Il potere esiste continuamente, come dato di fatto. Il potere si rinnova, cambia, è un ciclo come la notte segue il giorno, ma rimane sempre presente nella società. Sradicato un potere, chi lo aveva combattuto ne crea uno nuovo, un nuovo potere che sarà combattuto da altre persone, e così via, in un infinito ciclo di potere e lotta al potere.
Il giudice gli fa notare che loro due sono simili. Anche l’impiegato ha giudicato, nonostante questo fosse compito del magistrato (Il dito più lungo della sua mano è l’indice, simbolo di giudizio, mentre quello dell’imputato il medio…rivolta, ma il dito medio nell’antichità significava impudenza nei confronti di un’azione vergognosa oltre a riflettere lo status di soggetto “nella media”). L’impiegato, nella sua idea di rivolta, si è collocato sopra la legge, giudicando, condannando e rinnovando il potere. L’impiegato si ritrova nei panni del proprio nemico. Si è ritrovato a essere l’involontario strumento del rinnovo del potere.
Nella parte finale del suo discorso, il giudice gli racconta del giorno in cui aveva giudicato chi gli aveva dettato la legge, dunque la classe politica, i membri del Parlamento. “Prima cambiarono il giudice, e subito dopo la legge.” Il potere si mette sempre al servizio di se stesso, anche a certi livelli, cambiando ed eliminando tutto ciò che è scomodo o nocivo alla propria esistenza.
La Canzone Del Padre
Il giudice non solo non lo giudica (Sogno numero due), ma anzi gli chiede di essere artefice del proprio destino, scegliendo tra condanna o assoluzione.
La prima strofa della Canzone del Padre continua la conversazione con il giudice. Gli chiede se vuole “davvero lasciare ai tuoi occhi solo i sogni che non fanno svegliare” cioè le ideologie, le ambizioni, i sogni ad occhi aperti. L’impiegato vuole di più: li vuole più grandi. Ideologie smisurate e irrealizzabili o solo la realizzazione del suo sogno, della sua ideologia.
Il giudice gli offre il posto di suo padre nella società borghese. Un posto di comando (il “ponte”), da cui comanderà chi sta sotto di lui (“le più piccole dirigile al fiume”) e non si occuperà di chi è più potente di lui (“le più grandi sanno già dove andare”). É un invito a comandare, da un lato, e a non impicciarsi di affari più grandi di lui, dall’altro. L’impiegato accetta di diventare suo padre, ucciso in un sogno precedente (al ballo in maschera), consapevole che il tribunale l’ha assolto per quella strage. “Il tribunale mi ha dato fiducia, assoluzione, delitto, lo stesso movente”.
A questo punto il sogno cambia e si sovrappone la visione di Berto, un compagno di scuola e vecchio amico dell’impiegato.
Berto ha lasciato la scuola, preferisce “contare sulle antenne dei grilli”, e “non usa mai bolle di sapone per giocare”, cioè non sogna mai. Di umili origini, è figlio di una lavandaia e probabilmente è persona che dipende molto dai genitori, infatti l’impiegato ricorda come lui aveva l’abitudine di mettere sotto sua madre “seppelliva sua madre in un cimitero di lavatrici”. Sua madre, quasi una figura eroica, si spezzava la schiena per amore del figlio, e si fermava solo per pregare inutilmente… “per suggerire a Dio di continuare a farsi i fatti suoi”. Berto nel sogno è uno sconfitto e si lascia “piovere addosso”, passivo spettatore degli eventi che non può controllare (la pioggia metafora della vita). Così scappa, non vive, per la paura di non saper trovare un proprio posto nella società, “la paura di arrugginire”. La ruggine degli anni a vivere passivamente lo rende una vittima sacrificabile nella società odierna.
Un altro cambio di prospettiva e il sogno ritorna a parlare della sua vita, un costante investimento in banca e in famiglia. L’impiegato, con i soldi e gli affetti, ha ottenuto una sicurezza, uno status sociale. È una vera rendita. Spendi oggi per ricavare di più in futuro. Il denaro per una sicurezza economica. Le relazioni umane per avere vicino qualcuno in un futuro, come suo padre che “pretende aspirina ed affetto” (dal Ballo Mascherato). Ma la sua vita fa acqua se non da tutte le parti almeno da una paio di parti vitali, come con il rapporto con la “moglie” e suo figlio, e capisce di non avere più alibi. La sua bomba al ballo mascherato ha provocato solo un rinnovamento del potere. Lui ha preso il posto di suo padre, ed è diventato il nuovo potere. È solo uno strumento per un nuovo potere. Tutto ciò non ha servito a niente. Si sveglia. E decide di farsi giustizia da solo.
Il Bombarolo
L’impiegato progetta un vero attentato, costruendo una bomba con le sue mani.
Incapace di fare a meno del suo individualismo, l’impiegato sceglie un gesto effimero e solitario, totalmente inutile in confronto alla rivolta collettiva del Maggio ’68 che aveva già portato a un fallimento. La sua miccia è la vendetta e la frustrazione, il vedere la gente terrorizzata per strada e non voler diventare come loro, gli intellettuali (gli idioti di domani) che combattono solo a parole. Sa di poter decidere almeno per un giorno e ciò lo fa sentire una sorta di giustiziere, in diritto e forse nel dovere di eliminare i nemici a beneficio di tutta la società.
Nella nebbia scura della sua personale disperazione, arrabbiato con tutti, l’impiegato compie l’atto terroristico davanti al Parlamento. Per un caso fortuito la bomba non esplode come lui aveva previsto e fa saltare in aria un chiosco di giornali. L’ironia della sorte fa in modo che una foto di “lei” (probabilmente la sua fidanzata) appaia nella prima pagina di ogni giornale volato in aria al momento dell’esplosione. Attentato fallito.
Verranno A Chiederti Del Nostro Amore
L’impiegato pensa alla sua amata e immagina le domande a cui dovrà rispondere ora che è la fidanzata del bombarolo.
Lui è in prigione ormai, e lei risponderà del loro rapporto, della loro vita privata, di come ci si sente a vivere con un terrorista. Questo è il momento del taglio del nastro e chiunque abbia qualcosa da dire, o domande da fare, giornalisti, familiari e curiosi potranno fiondarsi al ricevimento e banchettare sulla sua vita.
Gli sciacalli arriveranno subito “Quando in anticipo sul tuo stupore verranno a chiederti del nostro amore”; lei, la dipingeranno più bella, mentre lui sarà un uomo finito, già vecchio. Per questo le consiglia di non dare in pasto il loro amore tutto in una volta, come fosse uno scenario inevitabile, ma di proteggere almeno la sua immagine nella relazione con lei nel corso degli anni.
Il soggiorno in carcere è il momento in cui capisce di aver sbagliato. Avere visto il suo viso nei giornali al momento dell’esplosione può essere il ponte dove partono, uno in fila all’altro, tutti i suoi pensieri. In quei giorni capisce l’importanza della collettività in confronto all’inutilità dell’individualismo, la causa del suo gesto e l’effetto di come ha vissuto.
Tra riflessioni personali sul fallimento del loro rapporto per non essere riusciti a cambiare insieme e l’amara consapevolezza che Loro “Sono riusciti a cambiarci, ci sono riusciti lo sai”, l’impiegato riflette sulla fidanzata e sul suo modo di vivere. Tra la mancanza di obiettivi e ideali, e la ricerca di un uomo con un buon lavoro con cui sposarsi, con cui ogni giorno vale l’altro, l’impiegato si domanda se “Continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?”
Nella Mia Ora Di Libertà
“Se fossi stato al vostro posto…ma al vostro posto non ci so stare”
La redenzione dell’impiegato, grazie all’esperienza del carcere. Fabrizio Dé André e Giuseppe Bentivoglio scelgono questo finale perché la prigione è un posto di collettività forzata. Passato e presente dell’impiegato sono rovesciati. Prima uomo libero, ora ospite di una prigione con obbligo di presenza 24/24. Prima individualista, adesso parte di una collettività.
Prima solitario giustiziere per la sua giusta causa, ora obbligato a condividere spazio e tempo con perfetti sconosciuti. Uomini di ogni fede, ideologia, sogno o speranza, lì dentro sono tutti sulla stessa linea di partenza. Tutti sono “vestiti uguali”, cioè sullo stesso piano, come erano diversi ma uguali tutti gli studenti che avevano combattuto inutilmente nella primavera del ’68. Le condizioni sono le stesse. Ripensa al suo gesto, effimero ed eclatante come ogni gesto singolo può essere; ritorna agli errori di giudizio commessi in tribunale, al ghigno soddisfatto della gente fuori dal tribunale, un ghigno di un malsano senso di giustizia, ignoranti su cosa voglia dire “primavera”.
L’impiegato è passato da lunghi anni di inconscia obbedienza, meccanica e disumana, a un gesto individuale violento e per questo più umano, fino a capire che il potere è sempre cattivo. Non esistono poteri buoni. Chiunque sieda nella poltrona del potere ha in mano la possibilità di usare il bene e il male al proprio servizio, dosando indulgenza e violenza in parti uguali, mescolando bene il tutto e facendo bere la pozione a chi di potere non ne ha. Solo dal carcere la sua voce per la prima volta è parte di un coro. Vive la sua prima esperienza collettiva, con tanti altri uguali a lui, vestiti come lui, e capisce tante cose, tranne qual’è il crimine che si può fare per non passare da criminale.
Dal carcere, l’impiegato ha trovato il suo equilibrio, capisce che si può cambiare davvero con un sforzo collettivo. Infatti, se andiamo ora nella sua prigione, sentiremo sulla porta una canzone, che ci ripete, un’altra volta, che per quanto ci riteniamo assolti, siamo per sempre coinvolti.
Fai davvero un bel lavoro. Grazie, continua così.
Alessandro