“Relax,” said the night man “We are programmed to receive. You can check-out any time you like, but you can never leave!”
Ce ne abbiamo messo di tempo per parlare della copertina di Hotel California, ma l’attesa non è stata infinita, perché nella vita niente è eterno eccetto forse per due o tre cose, tra cui il quinto album dei cinque ragazzi che si facevano chiamare Eagles.
Gli altri due ragazzi erano Kosh e David Alexander, rispettivamente il direttore artistico e il fotografo che nel 1976 hanno preso l’oro del cielo californiano, l’hanno catturato e liberato in questa immagine di copertina.
Kosh era la mente dietro le cover di Abbey Road, Let It Be e Who’s Next.
Non proprio l’ultimo arrivato.
Ma in California, nel 1976, nel momento in cui globalizzazione, modernizzazione e consumismo del Golden State si fondono per trasformare un’intera nazione, beh, allora Kosh era proprio l’ultimo arrivato.
Chiunque si sentirebbe l’ultimo della fila se non è nato in California, uno stato che accoglie tutti, proprio come un hotel.
Nessuno degli artefici di Hotel California era californiano, e questo vuol dire tanto. Vuol dire tutto.
Kosh aveva soggiornato in un lussuoso albergo per un breve periodo. Uno di quegli hotel talmente belli da sembrare finti, come un’ostentata e non richiesta prova di ricchezza e sfarzo.
Aveva conosciuto gli Eagles. La band voleva un albergo che fosse la reincarnazione in mattoni dell’Hotel California.
Decidere l’albergo fu semplice.
Il Beverly Hills Hotel, al 9641 Sunset Boulevard, Beverly Hills.
Per Don Henley era il luogo giusto, l’unico ad avere quell’atmosfera di “gloria svanita, innocenza perduta, e decadenza”.
Henley desiderava trovare, nella realtà, l’hotel fantastico, quasi surreale, protagonista dell’album.
Fotografarlo invece non fu uno scherzo.
Kosh e Alexander desideravano trovare il loro personalissimo El Dorado, uno di quegli istanti in cui il sole rende tutto dorato.
Nella copertina di Hotel California, l’albergo si vede in lontananza, per metà coperto da siepi e alberi.
La foto prende i piani superiori e il tetto perché Kosh e Alexander scattarono da una piattaforma a venti metri d’altezza, abbastanza lontana per cogliere quei pochi secondi di tramonto che il sole concede ogni giorno. C’è sempre un momento in cui la foto di un tramonto è più bella di tutte le altre.
Scattarono con il sole negli occhi, alla cieca. Il servizio fotografico somigliò molto a un tiro a segno. Contro sole, copriti, scatta, abbassati, ricarica, scatta, ricarica, scatta. Mentre i minuti passavano e il sole se ne andava, lasciando il posto al vero imbrunire arancione, la coppia passò alle maniere forti usando una pellicola Ektachrome ad alta velocità.
Le foto all’hotel erano sgranate, di pessima qualità per un addetto ai lavori. Ma l’hotel doveva apparire proprio così.
Un hotel lussuoso e straordinario appariva dissoluto, rovinato e disabitato dopo le prime foto. Kosh allora lo fece diventare un hotel fantastico lavorando, appunto, di fantasia in post produzione.
Questo non è il Beverly Hills Hotel.
Nel retro copertina e gatefold c’è la hall del Lido Hotel, all’incrocio tra Wilcox Avenue e Yucca Street, a Hollywood.
Nel gatefold la sala si riempie di persone, come un oceanico arrivo per le vacanze.
Gli Eagles sono in primo piano, illuminati da una fonte luminosa, e circondati dai loro amici.
Erano amici della band provenienti dal panorama musicale californiano, e come gli Eagles quasi tutti venivano da fuori.
Henley voleva un gruppo di persone con stili di vita diversi. Chi era già integrato in California e chi si trovava ai bordi, e arrancava. Nessuna di queste persone è stata identificata e riconosciuta nella foto.
Nessuna tranne l’uomo che fa capolino nella finestra ad arco centrale. É quasi interamente avvolto dall’oscurità. Assolutamente non distinguibile se la foto non è almeno un po’ schiarita.
Sembra un’ombra che osserva il ricevimento nella hall sottostante, senza un motivo concreto.
Qui la faccenda si fa interessante, perché la sagoma è vagamente umana e allora come mai il nostro ospite non prende parte alla festa e se ne resta in disparte, lì in alto?
Strano. Molto strano.
Viso pallido senza capelli. È un essere spettrale che nessuno vede perché tutti sono girati nella sua stessa direzione, ma che probabilmente non potrebbero vedere lo stesso. Ho come la sensazione che spettrale è proprio il termine adatto a lui.
Per sensazioni come questa una grandissima fetta di pubblico, e buona parte dei critici, cercano in Hotel California un significato parallelo a quello cantato dal gruppo nelle parole dei brani.
È chiaro, no?
Quella pazza mania di inserire riferimenti occulti, messaggi al contrario, personaggi controversi nelle copertine, nei testi. Molti azzardano che il nostro amico lassù è Anton LaVey, l’allora capo della Chiesa di Satana, organizzazione nata a San Francisco nel 1966.
Robetta da niente.
Ma al di là delle speculazioni, Kosh dirà di non sapere chi è la figura appostata nel balcone dell’hotel, né che diavolo stia facendo:
“Nessuno lo sa, ma potrebbe essere un fantasma benigno visto come le vendite dell’album siano esplose in una settimana, raggiungendo subito il disco di platino.”
Ironico, Kosh, ma il volto in agguato e sospeso come un fantasma nel gatefold di questa copertina resta un punto di domanda.
L’Occhio umano vede l’Hotel…
…ma è il sole il protagonista di questa cover. Ciò che la rende possibile.
Perché siamo all’estremo ovest del mondo e questo è il Golden State, ragazzi. Dove il sole muore ogni giorno e si lascia dietro infinite scie d’oro.
E il senso di questo concept album è tutto nel significato del Golden State in quegli anni, come dirà Don Henley nel documentario History of the Eagles
“A journey from innocence to experience”.
Un viaggio dall’innocenza all’esperienza.
E cosa nasconde l’Hotel California?
Arrivi qui che non sai nulla della vita, lasci la California che conosci le due facce della società. Cosa offre di bello e prezioso, come l’oro, e cosa ti restituisce di sporco, nero e marcio, come un pezzo di carbone.
Conosci la vita.
E questo vale molto per chi in California non ci era nato e ci andava per un sogno o per una meta, per chi la incontrava per strada, la viveva e ci sbatteva contro.
Tipo gli Eagles. Nessuno di loro era californiano. Don Henley, Texas. Glenn Frey, Michigan. Don Felder, Florida. Randy Meisner, Nebraska. Joe Walsh, Kansas.
Tutti e cinque vivono in California quando lo stato diventa una centrifuga delle contraddizioni americane.
Il paradiso degli eccessi, soldi facili da fare e da bruciare, una scala sociale ripidissima da scalare ma dove rischi di scivolare e cadere, rovinosamente.
Superficialità profonda e mancanza di umiltà insieme all’innata ospitalità di un luogo che accoglie tutti.
E poi il galoppare sicuro e travolgente della droga, con la dipendenza da eroina che sarebbe il viaggio dello sconosciuto protagonista del brano omonimo e l’esotico soggiorno all’Hotel California allora sarebbe l’itinerario psichedelico fatto dalla band negli anni precedenti.
E come tutti gli album più grandi e famosi, anche Hotel California ha riferimenti molto più oscuri e difficili da cogliere. Per tanti parlerebbe di edonismo, di satanismo, addirittura di cannibalismo.
La California è come un hotel grande e accogliente. Caldo d’inverno, fresco d’estate. Porte aperte a tutti ad ogni minuto e in tutti i giorni dell’anno, è un hotel dove spesso succedono cose strane e incomprensibili, oscure. Altro che oro.
É stato un lungo viaggio. Abbiamo fatto check-in, siamo saliti in camera. Valigia piena, come in quei viaggi in cui non hai la minima idea di quanto ti fermerai.
Soggiorneremo tutti al Beverly Hills Hotel, al 9641 Sunset Boulevard.
Nel cuore del Golden State.
Il Golden State perché ogni essere umano può avere la sua occasione d’oro, perché tutto si paga a peso d’oro.
Golden State per le distese di papaveri gialli in primavera, per i tramonti più dorati di qualsiasi altro posto nel mondo.
Da queste parti il sole ti abbaglia prima di tramontare, come se la natura si vergognasse di mostrarsi così bella.
Alcuni di noi sono arrivati in aereo, altri in nave, gli amanti dell’avventura hanno preferito la macchina, conquistando il deserto in autostrada, correndo dietro al sole verso ovest e seguendo la trama di un brano gigantesco, quasi infinito.
Il portiere di notte dell’Hotel California, giù nella hall, ci ha detto che fare check-out non vuol dire lasciare l’albergo. Non so cosa intendesse.
Forse parla di qualcosa che, una volta qui, ti prende a poco a poco.
Non so voi, ma ho idea che tra noi c’è chi si fermerà una notte, chi una settimana, un mese, e qualcuno resterà qui per sempre.
FONTI
Documentario – History of the Eagles
Ten Worlds – Sito dedicato alle opere di Kosh
Scrivi un commento