Testo e Significato di
Io Se Fossi Dio

Giorgio Gaber

1980

Composta da: Gaber – Luporini

Etichetta: F1

(Il testo di questa canzone è inserito in questo sito solo come citazione per cercare di spiegarne il significato.É una divulgazione culturale per gli amanti della musica e per chi è curioso: non ci sono fini economici e tutti i diritti sul testo sono riservati agli autori.)

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Io…se fossi Dio…
Che io potrei anche esserlo.
Se no, non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un dilettante
Sarei sempre presente
Sarei davvero in ogni luogo a spiare
O meglio ancora a criticare, appunto, cosa fa la gente.

Per esempio, il piccolo borghese, com’è noioso
Non commette mai i peccati grossi
Non è mai intensamente peccaminoso
Del resto, poverino, è troppo misero e meschino
E pur sapendo che Dio è più esatto di una Sweda
Lui pensa che l’errore piccolino non lo conti o non lo veda
Per questo io se fossi Dio preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico
Dove si odiava, e poi si amava, e si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel Regno dei Cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio non sarei così coglione
A credere solo ai palpiti del cuore o solo agli alambicchi della ragione
Io se fossi Dio sarei sicuramente molto intero e molto distaccato
Come dovreste essere voi

Io se fossi Dio non sarei mica stato a risparmiare
Avrei fatto un uomo migliore
Si vabbè lo ammetto, non mi è venuto tanto bene
Ed è per questo, per predicare il giusto, che io ogni tanto mando giù qualcuno
Ma poi alla gente piace interpretare e fa ancora più casino

Io se fossi Dio non avrei fatto gli errori di mio figlio
E sull’amore e sulla carità mi sarei spiegato un po’ meglio
Infatti non è mica normale che un comune mortale
Per le cazzate tipo “compassione” e “fame in India”
C’ha tanto amore di riserva che neanche se lo sogna
Che viene da dire: “ma dopo come fa a essere così carogna!”

Io se fossi Dio non sarei ridotto come voi
E se lo fossi, io certo morirei per qualcosa di importante
Purtroppo l’occasione di morire, simpaticamente, non capita sempre
E anche l’avventuriero più spinto muore dove gli può capitare, e neanche tanto convinto.

Io se fossi Dio farei quello che voglio
Non sarei certo permissivo, bastonerei mio figlio, sarei severo e giusto
Stramaledirei gli Inglesi come mi fu chiesto
E se potessi anche gli Africanisti e l’Asia
E poi, gli Americani e i Russi, bastonerei la militanza come la misticanza
Prenderei a schiaffi i voltairiani, i ladri, gli stupidi e i bigotti
Perché Dio è violento e gli schiaffi di Dio appiccicano al muro, tutti.

Ma io non sono ancora nel Regno dei Cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Finora abbiamo scherzato.
Ma va a finire che uno prima o poi ci piglia gusto
E con la scusa di Dio tira fuori tutto quello che gli sembra giusto.
E a te, ragazza, che mi dici che non è vero
Che il piccolo borghese è solo un po’ coglione
Che quell’uomo è proprio un delinquente, un mascalzone
Un porco in tutti i sensi, una canaglia, e che ha tentato pure di violentare sua figlia
Io come Dio inventato, come Dio fittizio prendo coraggio e sparo il mio giudizio
E dico: “Speriamo che a tuo padre gli sparino nel culo, cara figlia!”
Così per i giornali diventa un bravo padre di famiglia

Io se fossi Dio maledirei davvero i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non son brave persone e dove cogli, cogli sempre bene
Compagni giornalisti, avete troppa sete
E non sapete approfittare delle libertà che avete
Avete ancora la libertà di pensare
Ma quello non lo fate e in cambio pretendete la libertà di scrivere
E di fotografare
Immagini geniali e interessanti
Di presidenti solidali e di mamme piangenti
E in questa Italia piena di sgomento come siete coraggiosi
Voi che vi buttate senza tremare un momento
Cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti
E si direbbe proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro umano
Col gusto della lacrima in primo piano.
Si vabbè lo ammetto la scomparsa dei fogli e della stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza
Non avrei certo la superstizione della democrazia.

Ma io non sono ancora nel Regno dei Cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente
Nel Regno dei Cieli non vorrei ministri e gente di partito tra le palle
Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle
E tutti quelli che fanno questo gioco
Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso come la lebbra e il tifo
E tutti quelli che fanno questo gioco c’hanno certe facce che a vederli fanno schifo
Che siano untuosi democristiani o grigi compagni del piccì
Son nati proprio brutti o perlomeno tutti finiscono così

Io se fossi Dio dall’alto del mio trono vedrei che la politica è un mestiere come un altro
E vorrei dire, mi pare a Platone
Che il politico è sempre meno filosofo e sempre più coglione
E’ un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
Che scivola sulle parole anche quando non sembra, o non lo vuole.

Compagno radicale
La parola compagno non so chi te l’ha data ma in fondo ti sta bene
Tanto ormai è squalificata
Compagno radicale
Cavalcatore di ogni tigre, uomo furbino
Ti muovi proprio bene in questo gran casino
E mentre da una parte si spara un po’ a casaccio
E dall’altra si riempiono le galere di gente che non c’entra un cazzo
Compagno radicale
Tu occupati pure di diritti civili e di idiozia che fa democrazia
E preparaci pure un altro referendum questa volta per sapere
Dov’è che i cani devono pisciare.

Compagni socialisti
Ma sì anche voi insinuanti astuti e tondi
Compagni socialisti
Con le vostre spensierate alleanze
Di destra, di sinistra, di centro
Coi vostri uomini aggiornati
Nuovi di fuori e vecchi di dentro
Compagni socialisti
Fatevi avanti che questo è l’anno del garofano rosso e dei soli nascenti
Fatevi avanti col mito del progresso e con la vostra schifosa ambiguità
Ringraziate la dilagante imbecillità.

Ma io non sono ancora nel Regno dei Cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio non avrei proprio più pazienza
Inventerei di nuovo una morale
E farei suonare le trombe per il Giudizio Universale

Voi mi direte perché così parziale
Il mio personalissimo Giudizio Universale
Perché non suonano le mie trombe
Per gli attentati, i rapimenti, i giovani drogati e per le bombe
Perché non è comparsa ancora l’altra faccia della medaglia.
Io come Dio non è che non ne ho voglia
Io come Dio non dico certo che siano ingiudicabili
O addirittura come dice chi ha paura “gli innominabili”
Ma come uomo, come sono e fui
Ho parlato di noi comuni mortali
Quegli altri non li capisco
Mi spavento, non mi sembrano uguali
Di loro posso dire solamente che dalle masse sono riusciti ad ottenere lo stupido pietismo per il carabiniere
Di loro posso dire solamente che mi hanno tolto il gusto di essere incazzato personalmente
Io come uomo posso dire solo ciò che sento
Cioè solo l’immagine del grande smarrimento.

Però se fossi Dio sarei anche invulnerabile e perfetto
Allora non avrei paura affatto
Così potrei gridare, griderei senza ritegno
Che è una porcheria che i brigatisti militanti siano arrivati dritti alla pazzia.
Ecco la differenza che c’è tra noi e gli innominabili
Di noi posso parlare perché so chi siamo
E forse facciamo più schifo che spavento
Di fronte al terrorismo e a chi si uccide c’è solo lo sgomento.

Ma io se fossi Dio non mi farei fregare da questo sgomento
E nei confronti dei politicanti sarei severo come all’inizio
Perché a Dio i martiri non gli hanno fatto mai cambiar giudizio
E se al mio Dio che ancora si accalora gli fa rabbia chi spara
Gli fa anche rabbia il fatto che un politico qualunque
Se gli ha sparato un brigatista diventa l’unico statista

Io se fossi Dio
Quel Dio di cui ho bisogno come di un miraggio
C’avrei ancora il coraggio di continuare a dire che Aldo Moro
Insieme a tutta la Democrazia Cristiana
È il responsabile maggiore di vent’anni di cancrena italiana.
Io se fossi Dio
Un Dio incosciente, enormemente saggio
Avrei anche il coraggio di andare dritto in galera
Ma vorrei dire che Aldo Moro resta ancora quella faccia che era.

Ma in fondo tutto questo è stupido
Perché logicamente io se fossi Dio la terra la vedrei piuttosto da lontano
E forse non ce la farei ad accalorarmi in questo scontro quotidiano
Io se fossi Dio non mi interesserei di odio, di vendetta e neanche di perdono
Perché la lontananza è l’unica vendetta e l’unico perdono.

E allora.. va a finire che se fossi Dio
Io mi ritirerei in campagna
Come ho fatto io.

Storia e Significato

Quando Giorgio Gaber se ne andò nel Regno dei Cieli avevo sedici anni. Ricordo. Le televisioni ricordavano la sua simpatica abilità nel comunicare e in radio era un valzer delle sue canzoni, come “Lo Shampoo”, “La Libertà”, “Far Finta di Essere Sani”, la nuova “Non Insegnate Ai Bambini” e tante altre del suo repertorio, ma nessuno, proprio nessuno menzionò mai Io Se Fossi Dio, nemmeno per sbaglio.

In quel momento non conoscevo il brano. Ovvio, nessuno ne parlava. Un singolo tratto di penna sopra un errore, un’interferenza sbagliata nella sua carriera.

Eppure ventitré anni prima di andarsene (venticinque per essere precisi), Gaber aveva perso del tutto la pazienza.

Dal momento che all’epoca non ero nemmeno nei pensieri dei miei genitori ho parlato con mio zio per avere una testimonianza del periodo. Lui aveva venticinque anni quando uscì questo disco. Sentire un cantautore popolare come Gaber nominare Aldo Moro, a soli due anni dal suo omicidio, era terribile. Era un frastuono che faceva male e smuoveva lo spirito.

Era l’alba degli anni ’80 dopo un decennio sfiancante a fare turni di notte. Dieci anni di lotte autoprodotte che avevano ridimensionato le rivolte del ’68. Un decennio di piombo e di paura. L’omicidio Moro era cronaca dell’altro ieri. Dopo il logorio della vita moderna, iniziava il capitolo del “lasciamoci tutto alle spalle” e divertiamoci. E facciamo finta di nulla. Era l’epoca delle tv commerciali, del rampantismo arrivista e della “Milano da Bere”, gli anni in cui viene piantato il seme dell’individualismo che germoglia ancora oggi.

“Si stava meglio quando si stava peggio” è un tipico mantra italiano. Prendi un anno a caso e qualcuno l’ha detta. Qualcuno, è certo, la esclamò anche nel 1980, sull’onda emotiva di cosa vedeva in tv o sentiva in radio, filtrato dalle bocche, dalle sinapsi e dalle penne dei mass media.

Ecco, Giorgio Gaber non era nel gruppo che la pronunciò, nel 1980.

Ogni altro anno, forse, ma non nel 1980, perché, signori, lui nel 1980 è incazzato come mai lo era stato e protesta come mai aveva fatto, e a quattro mani con Sandro Luporini sparge rabbia e insofferenza verso il suo Paese, inventandosi un singolo che occupa un’intera facciata di LP e che sarà cancellato dalle terre emerse della musica italiana dal giorno della pubblicazione fino ad oggi. Mediaticamente, come se non fosse mai esistito. Doveva coesistere nell’album Pressione Bassa ma la Carosello costringe Gaber a toglierlo per una sicura censura e, peggio, per il sequestro del disco e la denuncia ai produttori.

Gaber fa filtrare la sua, di denuncia, grazie alla neonata etichetta F1, nata in un anno cruciale: il 1978. Anche Io Se Fossi Dio nasce nel 1978.

Un disco pirata, uscito due anni dopo da una casa discografica perché il suo creatore s’era messo in testa che s’aveva da fare, costi quel che costi, il prima possibile, prima che sia troppo tardi. Un brano sgusciato via, irresistibile, inseguito dalla censura, ritirato, boicottato e di nuovo autoprodotto e rimesso in circolo da Gaber nelle arterie clandestine dell’Italia. I carabinieri setacciarono le radio per sequestrare il disco, mio zio che lavorava in una piccola emittente locale ebbe appena il tempo di passarlo per qualche giorno.

La misteriosa scritta in un vinile tuttora molto difficile da ottenere prometteva: ½ vinile. È tutto. E basta e avanza. Infatti, il 33 giri serviva solo a deflagrare una voce con quindici minuti di invettive devastanti nei confronti della società e politica italiana degli anni ’70. L’altro lato del disco era inutile, nessun’altra canzone avrebbe potuto (e voluto) occupare lo stesso spazio con un brano così scomodo come Io Se Fossi Dio. Ma scomode sarebbero state le altre canzoni, perché il nuovo j’accuse di Gaber totalizza e vaporizza ogni cosa, trattandosi della cosa più violenta mai scritta da un artista italiano, una canzone che picchia mazzate durissime e che si dovrebbe insegnare nelle scuole per dare ai ragazzi un esempio di coraggio artistico e libertà.

Quello che forse è il testamento artistico di Giorgio Gaber non doveva vendere. Doveva fare male.

Gaber immagina cosa farebbe se potesse sostituirsi al Padreterno, lui che non lo è, e già dal titolo capiamo che nella realtà dei fatti si sente con le mani legate, incapace di trasformare i pensieri in azioni . Il brano allora è uno sfogo personale, ma anche un allarme da far arrivare a più gente possibile.

Partendo dal sonetto “S’io fossi fuoco” di Checco Angiolieri, il Signor G immagina di riuscire a vedere tutto e tutti, condizione necessaria ma non sufficiente per capire cosa diamine stia succedendo nella nostra società.

Il piccolo borghese, che “non commette mai peccati grossi”, si sente a posto con la propria coscienza, convincendosi di essere meglio di chi ammazza e chi ruba. Ce l’ha con quelli che l’aiuto è meglio darlo da lontano, tipo “aiutiamoli a casa loro”, dormendo sereni con “cazzate tipo compassione e fame in India” ma diventando perfidi quando c’è da aiutare sul serio.

Il piccolo borghese, meschino anche nel male, vivrà con la coscienza pulita nonostante Dio sia “più esatto di una Sweda”, cioè infallibile, geniale riferimento alla ditta svizzera di strumenti di precisione Sweda, produttrice di bilance e registratori di cassa con elevatissimi standard di qualità.

Gaber rimpiange i secoli in cui, nel bene e nel male, c’erano meno ipocrisie. Il duello era un metodo oggettivo per risolvere una disputa, senza mascherarsi e accoltellare alle spalle. Tenere tutti gli istinti sopiti può fare più danni, forgiando una società finta.

Può plasmare una mentalità fondata solo sull’emotività (“i palpiti del cuore”) o solo sulla razionalità, cioè gli “alambicchi della ragione”. Gaber utilizza il termine “alambicco” nel senso di separare il pensiero da ogni parvenza di umanità. L’alambicco, infatti, è un antico strumento usato per la distillazione, cioè la tecnica che separa un liquido da alcune sostanze in esso contenute. Ragionare solo con gli “alambicchi della ragione” vuol dire agire con feroce lucidità e fredda razionalità, senza mescolare cervello e cuore nelle decisioni. La conseguenza è un pensiero contorto e sconclusionato, consegnando il Paese a persone che agiscono solo di pancia o con disumana ragione.

Il ciclone sconquassa le fondamenta della società, a partire dalle persone comuni con tanto “amore di riserva che neanche se lo sogna”.

E non importa che ogni tanto Lui mandi giù qualcuno, cioè persone che fanno realmente del bene, perché ogni parola, azione o pensiero è soggetto a interpretazione, spesso perdendo il senso del logico e capendo una cosa per un’altra.

Dopo un pensiero di quanto sia nobile essere un vero martire, dando la vita per “qualcosa di importante”, concetto che ritornerà in seguito nel verso più duro del brano, Gaber tira schiaffoni a tutti. Dagli americani ai russi, protagonisti della Guerra Fredda, agli inglesi agli asiatici e chi aiuta i paesi africani (o finge di farlo); dai razionali illuminati (seguaci di Voltaire) agli attivisti politici di ogni parte (la militanza) e anche chi vive di ideali e di misteri (la misticanza, in tono spregiativo) come la Chiesa e gli idealisti, e poi gli stupidi, i bigotti e i ladri.

Il giornalista Gianni Riotta dell’Espresso ricorda, in un articolo del 1981, il giorno in cui ha ascoltato il brano a casa di Gaber, a Milano, in un pomeriggio di quel corrosivo 1980. L’intervista-chiacchierata diventerà un momento di nostalgia, previsioni e analisi musicale dove un Gaber arrabbiato criticherà tanta gente e tanto farà anche mea culpa.

Gaber fece ascoltare la cassetta con tutto il brano a Riotta, poi eseguì alla chitarra, davanti ai suoi occhi, la parte dove sega le gambe a tutti i giornalisti, proprio tutti, “che certamente non son brave persone e dove cogli, cogli sempre bene”.

Gaber pubblica Io Sono Dio proprio quando il suo rapporto con i mass media stava migliorando.

Da molti anni si era staccato dal mondo limitato e controllato della televisione e comunicava con il “Teatro Canzone”. Questo termine innocuo era il suo modo per dar vita alle sue canzoni e alle sue critiche, cercando di far aprire gli occhi e facendo gridare le bocche. La conseguenza è tracciare un solco netto tra lui e i canali informativi “classici” dei piani alti, mezzi d’informazione che dovrebbero essere super partes ma che invece sono di parte.

Questo allontanamento succedeva quando il rinnovamento promesso dal ’68 era andato in fumo, quando le persone erano allo sbando per il terrorismo e per chi dall’alto muoveva i fili, accadeva con album come Storia Di Un Impiegato di De André, nel 1973, e il suo Polli D’Allevamento del 1978, provocatorio e divisorio nei confronti degli stessi movimenti che cercavano un cambiamento, colpevoli di seguire le mode agendo come automi.

Gaber si dissocia sul finire degli anni ’70, ma è ancora una voce del coro. Con Io Se Fossi Dio, invece, la sua è voce isolata. La consapevolezza di non essere parte di nessun’area politica, non più, genera un reflusso impazzito di Teatro Canzone.

E rende l’invettiva molto più generale.

In un’intervista in occasione di Io Se Fossi Gaber (1985), Gaber dirà di attaccare tutto il gioco di potere della politica, riflettendo su come il suo Paese stia entrando in un’altra era.

Qualcosa di diverso rispetto al conformismo degli anni ‘70, un’era dove il dilemma sembra essere decidere tra Duran Duran e Spandau Ballet, dove ci si ritrova all’improvviso miopi e baldanzosi, sospendendo giudizi e critiche.

Lo fa quando radio e televisioni di Stato erano pronte ad accoglierlo di nuovo, aprendo un canale di preferenza con il grande pubblico. Una pugnalata alla schiena.

Il cantautore usa il termine “Deamicisiani” per i giornalisti, parola derivante dall’autore di Cuore, Edmondo De Amicis, usata in senso negativo e critico come allusione a un sentimentalismo commovente e un amore forzato per l’etica e per il bene, giocando sulla sensibilità delle persone e le loro lacrime.

Gaber riconosce che sarebbe folle privarsi degli organi di stampa, ma date le enormi influenze e possibilità di giornali e televisioni, nel giocare con verità e menzogna, con grande amarezza non si illude di vivere in un Paese in cui il vero potere è del popolo (“Non avrei certo la superstizione della democrazia”).

Riotta ricorda di come Gaber fosse interessato a smuovere le zolle della terra politica, rimanendo insensibile al fatto che la canzone piacesse o meno.

Non importa da che parte arrivi il fuoco, ma deve bruciare tutti i piani del palazzo. Un palazzo dove si gioca a un gioco “di forze ributtante e contagioso come la lebbra e il tifo”, cioè un gioco malvagio che prende tutti, anche chi all’inizio ha le migliori intenzioni.

Allora i “compagni del PCI” sono grigi perché fumosi, senza un’idea politica, e gli esponenti della DC sono definiti “untuosi” cioè viscidi, come il grasso o una sostanza di cui non riesci a liberarti. La DC era infatti il maggior partito di quegli anni, sempre presente dal Dopoguerra.

Allora i radicali sono opportunisti, pronti a cavalcare ogni protesta (“cavalcatore di ogni tigre”), ma inutili e buoni solo per decidere il cesso dei cani e altra “idiozia che fa democrazia”, cioè tutte le questioni sociali e popolari che fanno credere al popolo di avere una qualche voce in capitolo.

I socialisti, con il “mito del progresso” per far presa sul consenso popolare e con le loro “spensierate alleanze” sono “insinuanti” e “astuti”, ma Gaber tra le righe scommette proprio sul partito del Garofano Rosso e del Sole Nascente negli anni a venire (infatti i socialisti avranno molto successo negli anni ’80), tuttavia ricordandogli di ringraziare la mancanza di comprensione del popolo (duramente definita “dilagante imbecillità”).

Nel ritmo costante di questo sottofondo rock, un tappeto omogeneo di basso, chitarra e batteria dove la rabbia ribolle e in cui le parole che pungono di più sono scandite con altri strumenti, Gaber evoca le trombe del Giudizio Universale e inizia a cantare gli ultimi due versi.

Sono le invettive più dure, dalle quali non si torna indietro, perché fa nomi e cognomi, anzi, il nome e cognome per eccellenza, andando a toccare proprio Aldo Moro ucciso due anni prima.

Dopo la morte di Moro erano arrivati gli elogi da più fronti per l’ex presidente DC, e i media arrivarono a definirlo come l’unico vero statista italiano.

Una morte riusciva a cambiare l’operato di una persona, capovolgendo un giudizio storico rispetto a come se ne stava parlando.

Tutto questo non va bene a Gaber, che ricorda quali erano i giudizi sul Moro politico e uomo, prima che diventasse un martire dopo la morte, e lo grida senza pietà. Il terrorismo delle Brigate Rosse, oltre a creare sgomento al punto da essere a malapena commentabili (“Ecco la differenza che c’è tra noi e gli innominabili, di noi posso parlare perché so chi siamo”), sono doppiamente nocive per aver trasformato la morte di Moro in un colpo di spugna, cancellando colpe e macchie.

Mai la coppia Gaber-Luporini si era spinta tanto oltre il limite e in modo così diretto.

Io Se Fossi Dio nasce da una sana e profonda indignazione personale su come stavano andando le cose, e da un senso di impotenza, come Gaber confermerà nella stessa intervista:

“…e poi la canzone non poteva terminare con l’urlo e l’invettiva trionfalistica perché la realtà è la nostra impotenza, la nostra incapacità di cambiare le cose e l’ultima frase riequilibra un po’ il discorso, l’andare in campagna è anche l’accettazione di questa nostra impotenza.”

Quello che manca al Giorgio Gaber, all’alba degli anni 80, è il sorriso rassicurante, la certezza che poi se ne uscirà con una battuta per sdrammatizzare, l’ironia per raccontarti cose spiacevoli ma grazie a cui capivi che si era per lo più scherzato.

Adesso non si scherza più. Quando si ascolterà questa canzone, quasi esclusivamente dal vivo, non si scherza più.